Un’estate con Di Tullio e Mancini le due anime poetiche dell’alto Molise

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libroAGNONE – Fra qualche anno, entrerà nei libri di Storia il triste e drammatico periodo che stiamo trascorrendo del “coronavirus”. Un trauma sociale che si cerca di esorcizzare in molteplici modi, tra cui la poesia. Anche dialettale. Angelomaria Di Tullio (dirigente scolastico in pensione a Pescopannataro) e Guido Giovanni Mancini (docente in pensione a Poggio Sannita) rappresentano, come poeti, le due anime dell’alto Molise, differenti ma complementari. Il primo appartiene alle montagne più alte, isolate e innevate e il secondo al paese del vino e dell’allegra ironia. Due caratteri e due modi diversi di affrontare e di vedere la vita.

Entrambi, in vista della prossima estate, stanno preparando le rispettive raccolte di poesie da dare alle stampe e da presentare quando, in agosto, ritornano gli amici che abitano altrove, persino all’estero. É un modo gentile dei poeti per far ascoltare ai compaesani, rientrati per le vacanze, l’avito suono del bel dialetto, le cui sonorità ed inflessioni incantano e rievocano i migliori sentimenti dell’infanzia e del passato. E, infatti, sono dialettali le due raccolte poetiche delle due anime altomolisane. Per Di Tullio il titolo della bella silloge poetica si intitola “Sognando … Sognando” mentre per Mancini “Memorie e fantasie”.

Entrambi i poeti hanno all’attivo due pubblicazioni dialettali a testa. Di Tullio ha prodotto “Pazzianne … Pazzianne” e “Penzanne … Penzanne” mentre Mancini “Per non dimenticare” e “L’eco dei ricordi”. Bisogna riconoscere in entrambi l’attaccamento filiale alla propria terra, un affetto che cerca di rendere onore specialmente a quel mondo rurale che è stato offeso e stravolto dalle modernità. Sono due poeti che dovrebbero essere studiati nelle nostre scuole, pure per far riflettere le nostre generazioni altomolisane sui valori dei loro nonni che tuttavia reggono ad una globalizzazione insidiosa, che produce persino il Covid-19.

Di Tullio, che è un verseggiatore arguto e profondo nella sua elaborata filosofia esistenziale, insiste sui grandi temi e sui persistenti ed irrisolti interrogativi umani, sia per una vocazione più intellettuale e sia perché nelle più fredde solitudini invernali di Pescopannataro la meditazione (anche trascendentale) è agevolata dall’isolamento e dal maggiore spopolamento del borgo. Di Tullio e Mancini sono figli della propria terra e le note di colore ne forniscono la propria identità umana e letteraria. Territoriale!

Mancini, che è più versatile nei rapporti umani, si giova del ben noto clima più mite, amicale e conviviale del suo ameno borgo di Poggio Sannita che è, tra l’altro, terra del vino e dove fino a qualche anno fa si svolgeva con molto successo la “Festa dell’uva”. Ne risente pure il suo poetare, tutto proteso all’esterno e, quindi, con una vena di divertente ironia e persino di allegria, sempre tenendo presente gli imprescindibili e preponderanti affetti familiari, specialmente dei tre nipotini per i quali stravede. In Mancini, infatti, si sentono di più le generazioni ed il fatto di essere nonno, con una forte responsabilità di travaso culturale.

Due anime del medesimo territorio, influenzate dal differente modo di vivere e di sentire. Cosicché il Covid-19 dei loro versi ne esce con opposte sensazioni, pur nella medesima tragicità. Angelomaria Di Tullio ha come una visione che possiamo definire più “governativa” tesa alla prudenza e alle regole. D’altra parte un dirigente scolastico, ligio alle leggi come lui, non può avere una “forma mentis” diversa anche da poeta. Mentre Mancini, pur temendo la “bestiaccia” che incute terrore fatale in Di Tullio, risolve la questione alla poggese maniera, a quella più classica, prevedibile e scontata: “(il coronavirus) a me non fa paura, bevo qualche bicchiere e chiudo la serratura”.