Il ricordo del Generale Burgio di quel tragico giorno: “Sono arrivato in Iraq il 5 novembre 2003 perché ero stato designato dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri quale successore del Comandante che aveva aperto la missione a Nassiriya. In quei casi si trascorre un periodo di una settimana/dieci giorni di cosiddetto “affiancamento” che serve per capire la situazione, per poi assumere il comando il 13 o 14 successivi. Il giorno 11, al pomeriggio, ho ricevuto dal Comandante della brigata italiana l’ordine, per il 12 mattina, di accogliere una troupe cinematografica che doveva girare un film su Nassiriya. La sera dell’11, invece, sono stato chiamato dalla città di Bassora, dove aveva sede il Comando superiore, ovvero la divisione britannica, e il Generale Comandante mi ordinava di presentarmi da lui. Sono partito di buon mattino e, dopo essere arrivato lì, ho saputo che dieci minuti prima c’era stato l’attentato a Nassiriya! Questo è il primo ricordo! Il secondo è stato arrivare sul posto e vedere quella distruzione, a cui penso nessuno sia abituato. Il mio terzo pensiero era che, essendo il Comandante del reggimento dei paracadutisti e avendo ricevuto un particolare addestramento, avevo il dovere di riportare quei ragazzi a casa, perché prima dell’attentato qualcuno aveva deciso che avrei assunto quel comando. In quel momento mi ha aiutato il non pensare ai ricordi, ma solo al domani. L’autore del libro in più interviste ha sottolineato: “Bisogna avere il massimo rispetto per i caduti e, da militare di professione, è inutile che dica qual è il mio rispetto per loro. Il libro vuol dire che Nassiriya non ha rappresentato solamente diciannove morti tra carabinieri, militari dell’Esercito e due civili, ma anche molte persone che, in silenzio, si sono rimboccate le maniche pensando a fare il proprio dovere fino alla fine. Ero il comandante del reggimento paracadutisti e, in quel momento, avevo molta esperienza operativa sulle spalle. Con il plotone dei miei Carabinieri paracadutisti eravamo addestrati e alcuni di loro avevano partecipato a precedenti missioni in Somalia, Albania, Libano o Sarajevo. Tutti gli altri però, compresi i militari stranieri, tra cui una compagnia di romeni e una di portoghesi della Guardia Nazionale, non avevano un addestramento specifico per quel determinato scenario. Questo è uno dei motivi per cui ho scritto questo libro. Queste persone per la maggior parte pur non avendo l’addestramento per quegli scenari di combattimento si sono rimboccate le maniche e con il cosiddetto ‘on the job training’ sono rimaste lì e, con la paura, hanno terminato la missione”.
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