Apprende del pentimento e dei rimorsi di suo padre Mainardo che lo aveva tenuto lontano dalla chiesa spronandolo con veemenza ad accudire il bestiame e coltivare i campi. Non passa molto tempo quando sceglie di allontanarsi definitivamente, ma prima dona tutte le sue proprietà ai diseredati.
Nel mentre va via lascia il suo mantello al più povero del paese, e parte alla ricerca di un luogo dove raccogliersi in preghiera. Incrocia sul suo cammino dei frati in un convento a San Severo che secondo la descrizione di alcuni storici in realtà lo localizzano a San Marco dei Cavoti, e da quel momento avvia una peregrinazione che alla fine lo conduce in una grotta nella selva di Baselice dove rimarrà 46 anni.
La voce sulle virtù di questo Eremita si diffonde sempre più, e una moltitudine di persone di ogni ceto sociale si mette in fila a fargli visita, compresi i potenti di quel periodo che gli offrono senza successo doni preziosi o altre prebende.
Dopo alterne vicissitudini sceglie di spostarsi a Foiano Valfortore e qui insieme ai suoi confratelli fonda l’Abbazia di Santa Maria del Gualdo secondo la regola benedettina. Papa Adriano IV° con Bolla Pontificia del 14 aprile 1156 avvia formalmente l’attività di questo centro religioso che primeggerà negli studi e assumerà un ruolo di straordinario rilievo storico-culturale per tre secoli fino al devastante terremoto del 1456 che ne segnerà il declino. Giovanni guidò la Fraternità per 14 anni e tracciò con il suo esempio di sobrietà, pace, studio, rettitudine e rifiuto di doni voluttuari dai potenti, il solco su cui i suoi successori continuarono a camminare senza mai smarrirsi nelle mille controversie di un territorio di confine in cui non mancavano scorribande, incursioni militari, guerre di posizionamento e mutamenti repentini tra Bizantini, Longobardi, Normanni, Svevi, Angioini, Durazzeschi e Aragonesi.
Impossibile leggere con gli occhi del XX° anno del XXI° secolo il Fortore come un fiume che segnava il confine geografico, politico e culturale tra Oriente e Occidente, e quindi tra i Catapani Bizantini che da Bari imponevano tasse, regole e riti religiosi ispirati a Costantinopoli; ed i Principati Longobardi che periodicamente sollecitavano l’arrivo di imperatori tedeschi come Ottone, Enrico II°, Ludovico ed altri per limitare il dominio dell’impero Romano d’Oriente alla Puglia e parte del Metaponto e della Calabria. Sul Fortore uno dei più bravi catapani bizantini, Basilio Bojiannhes nell’XI° secolo eresse le fortezze di Celenza sul Fortore, Biccari e più indietro rafforzò Lucera, Troia o Melfi, per resistere alle incursioni di Melo, un mercante di Bari che sollevò i sudditi contro Bisanzio servendosi dell’appoggio dell’Imperatore bavarese Enrico II°, dei Longobardi e di un manipolo di guerrieri provenienti dalla Normandia.
Non si comprende bene l’opera di Giovanni l’Eremita se non la si inquadra nella complessità frastagliata del suo tempo. La sua scelta controcorrente che individua nell’Uomo e quindi nella Pace il fulcro dell’azione religiosa anticipa quella più nota di Francesco d’Assisi che seguirà sulle medesime orme nel secolo successivo.
Non parteggia per nessuno, privilegia il dialogo, rifugge i potenti e si dona alla natura e al creato, facendo splendere i precetti evangelici sulla fraternità contro ogni dominio, possesso o violenza. Indica nella preghiera, nel lavoro e nello studio, la strada per elevare al cielo l’umanità, offrendo il suo esempio di probità ascetica, sobrietà di tratti e massima umiltà. Giovanni riusciva a sorprendere la fraternità ponendo se stesso sempre all’ultimo posto per ogni cosa, e in questo modo la sua testimonianza, più della parola, indicava ai confratelli la strada del donarsi ai poveri senza alcun dogma se non l’amore per il prossimo.
Gli eventi che si susseguirono dal 1084 al 1170, negli anni della sua esistenza terrena, furono tumultuosi, e tra il Sannio, la Daunia e la Capitanata, registrarono l’affermazione dei Normanni e prepararono l’avvento degli Svevi in un crogiuolo di vicissitudini che tennero in scacco il Centro-Sud pressato periodicamente da incursioni saracene e da ritorni altalenanti dei bizantini.
Nonostante ciò, il germoglio lasciato da Giovanni venne sapientemente custodito dai frati dell’Abbazia di Santa Maria del Gualdo, che seppero dedicarsi agli studi, all’ascolto, al lavoro e alla preghiera con un’incessante attività che li portò a consolidare la propria notorietà tanto da indurre Pontefici, Imperatori e Re a intervenire a più riprese con atti, provvedimenti e disposizioni, a loro tutela e salvaguardia. Fu la credibilità e la costanza dei seguaci dell’Eremita che indussero l’Arcivescovo di Benevento, Ruggiero, a incaricare i Vescovi di Dragonara, Volturara e Monte Corvino, di recarsi all’Abbazia e innalzare agli onori degli altari il 28 agosto 1221 il Santo nato a Tufara, recuperandone le spoglie saggiamente nascoste da oltre mezzo secolo per impedirne il trafugamento. In realtà come accaduto anche in altre vicende similari, per la popolazione non fu necessario attendere l’ufficialità della decisione ecclesiastica, perché già negli ultimi anni di vita e subito dopo la morte, per gli umili, Giovanni era già Santo, ipso facto. In questi otto secoli che ci separano da quel 28 agosto è accaduto di tutto, da Papa Onorio III° che era al suo terzo anno di pontificato o Federico II° di Svevia salito al trono nel 1220, tutto è mutato.
Là dove si dominava il Mondo, si emanavano le Costituzioni Melfitane nel 1231 e si tenevano Concili per eleggere Papa Niccolò II° (1059), Papa Alessandro II° (1067), Papa Urbano II° (1089) e Papa Pasquale II° (1101) e dove l’Antipapa Anacleto II° innalzò nel 1130 il Duca Ruggiero II° a Re del Regno delle Due Sicilie rimasto in piedi fino al 1860, oggi ci sono luoghi senza nome a cui è stata rubata l’anima, la storia, il presente e il futuro. Spoliazioni amministrative, confini accartocciati tra Molise, Campania, Puglia e Lucania, con lande abbandonate a se stesse in cui nascere è raro e morire è la norma.
I figli di questa Terra sparsi ai quattro angoli del mondo fanno da richiamo per giovani che non faticano a omologarsi o perdersi nelle periferie di quel Nord che scendeva con le armate imperiali per ripristinare l’ordine nei luoghi in cui si anticipava con gli studi umanistici la moderna civiltà.
Come non collocare tra le gemme della storia dell’umanità il costrutto di Fra Nicola da Ferrazzano e Fra Nicola da Cerce, i due Abati successori di San Giovanni Eremita che tra il 1330 ed il 1360, si resero protagonisti della redazione di un Regolamento e dello Statuto Comunale per il nuovo borgo di San Bartolomeo in Galdo. Esaltando gli insegnamenti del fondatore dell’Abbazia, e unendo i saperi di eminenti studiosi che si erano distinti in decenni di approfondimenti umanistici, teologici e giuridici, i due Abati non solo ottennero la validazione dei loro scritti dal Papa e dal Re, con la conseguente autorizzazione a dar vita a una nuova città, ma inserirono in quegli Atti Costitutivi dei principi innovativi sulla tutela delle donne e dei fanciulli da ogni violenza fisica e morale, sulla libertà di intrapresa e sul divieto di licenziamento di braccianti, domestici o altri lavoratori senza una giusta causa.
In pratica dal seme dell’esempio di San Giovanni Eremita da Tufara e dal prosieguo attento della sua opera nei secoli successivi, si affermò con largo anticipo rispetto alle dottrine filosofiche del XIX° secolo o alla stessa Rerum Novarum di Papa Leone XIII°, un principio di giustizia sociale, salvaguardia della dignità delle donne, tutela dei fanciulli, diritti dei lavoratori e libertà d’intrapresa. Ciò che merita di essere evidenziato è la codificazione normativa in uno Statuto Comunale di quel principio.
Il valore storico di questo evento già oggetto di un importante seminario scientifico tenutosi a Campobasso nel 2014 con studiosi di diritto dell’Università di Bologna, Università del Molise e altri esperti, è tale da farci apprezzare l’elevata qualità raggiunta dall’Abbazia del Gualdo che sapeva unire in sé la libertà di elaborazione del pensiero con l’autorevolezza di far condividere quei principi rivoluzionari sia al Papa che al Re. Lo Statuto di un comune che nasce nelle tempestose vicissitudini del 1330-60 non è un libello scritto da un visionario animato da fede o capace di saper sognare un mondo più giusto, bensì un processo sociale, culturale e amministrativo durato 30 anni, dove da una parte operavano i successori di San Giovanni Eremita e dall’altra i dotti, giureconsulti, teologi di chiara fama e studiosi che attorniavano il Papa e i Cardinali a Roma o Avignone, e il Re con la Corte a Napoli o Palermo. Il capolavoro degli Abati del Gualdo fu quello di aver trasformato un principio giusto in una norma giuridica su materie quali il lavoro o le tutele dalle violenze sulle donne che sono ancora oggi di strettissima attualità.
A dire il vero è tutta l’opera di San Giovanni Eremita che meriterebbe di essere riscoperta perché ha conservato un’impressionante freschezza e una forza etica di straordinaria persuasività.
L’anno giubilare che si aprirà il 28 agosto a Tufara ci offre l’opportunità di oltrepassare i confini amministrativi e riprenderci quell’unità identitaria che accomuna le popolazioni del Sannio, della Daunia e del Molise, a monte e a valle del Fortore. Lungo il sentiero tracciato fisicamente e spiritualmente dal Santo Eremita con le sue peregrinazioni sul Gargano, nel Sannio, in Capitanata, nella Daunia e tra Baselice e Foiano Valfortore, sarà utile ritrovarsi con eventi promossi unitariamente dalle nostre Diocesi.
Un cammino che giustamente toccherà quelle comunità che l’hanno individuato come Patrono o Co-Patrono a partire dalla città di San Bartolomeo in Galdo che ne custodisce le reliquie in Cattedrale e ne rappresenta emblematicamente l’epilogo dei suoi insegnamenti e degli studi giuridici condotti dai suoi confratelli.
La nostra lungimiranza dovrà evitare di arroccarci nella Fortezza Longobarda di Tufara e farci alzare lo sguardo verso l’orizzonte dell’esperienza della selva di Baselice e della vetta di Mazzocco per riscoprire l’andare oltre di un giovane che non esitò a incamminarsi per Parigi e non ebbe timore di condividere la spartanità degli spazi angusti di una grotta con altre creature di Dio, ma che seppe dialogare con i dotti, progettare l’inimmaginabile e trasformare la realtà con opere e testimonianze che hanno resistito per secoli”. Lo si apprende da una nota a firma di Michele Petraroia, Presidente Onorario dell’Associazione “Giuseppe Tedeschi”.
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